Pubblicato in: Lapoesiaelospirito.it
Data: 10 ottobre 2013
Giovanni Papini per me era soprattutto il futurista dell’invettiva contro Firenze, pronunciata in occasione della serata organizzata da Marinetti e dai suoi al Teatro Verdi il 12 dicembre 1913 – della quale mi sono occupato in occasione di una recente intervista allo storico dell’arte Corrado Marsan (su Postpopuli.it). Un autore sanguigno, protagonista centrale della battagliera stagione delle riviste “La Voce” e “Lacerba”.
Leggendo Cento pagine di poesia, opera riproposta in e-book da Quodlibet (collana “Note azzurre”) nella versione originaria del 1915 (edita dalla Libreria della Voce), guidato dell’ottima introduzione del curatore Raoul Bruni – che qui di seguito ho il piacere di intervistare –, sono sceso molto più vicino al cuore dell’ispirazione di uno scrittore capace di fondere, in queste sue prose poetiche, realtà e immaginazione – Borges lo definì un autore “immeritatamente dimenticato” e lo accolse, unico italiano, nell’Antología de la literatura fantástica da lui curata con Silvina Ocampo e Adolfo Bioy Casares (1940). Non solo, ma Papini riesce anche a conciliare paesaggio esteriore e flusso di coscienza, visione soggettiva della vita e liberazione dagli aspetti più soffocanti dell’antropocentrismo, avvicinandosi all’intuitività del mondo animale e alla vibrazioni più sottili delle profondità cosmiche.
La prima parte, Proprietà, fotografa appunto il desiderio di fuga dalla realtà umana dell’autore, che vuol rifugiarsi nel muto dialogo con gli animali che popolano le campagne. Eppure, quando in giro non si trovano più “né il rospo, né il serpe, né lo scorpione, né la ghiandaia”, restano “le montagne” e “il cielo pieno di stelle, fino agli estremi dell’orizzonte” (qui Papini sembra perfino anticipare certe sonorità delle opere di Mario Rigoni-Stern, riagganciandosi peraltro a suggestioni provenienti dai lirici greci – penso a “Dormono le cime dei monti” di Alcmane).
Questa eco di natura la ritroviamo anche in altri punti della raccolta, come nell’ultima parte, Precipitazioni, dove – quasi in una struttura ad anello – “la calma circolare dei monti” ritorna, associata o quasi in contrappunto rispetto a dettagli di vita privata disseminati nell’ambiente domestico, insieme a un senso di fine e di dissoluzione dell’ego nell’anima del mondo.
Ed è proprio la vita nel mezzo, ovvero tutto ciò che anima il teatro esistenziale, l’oggetto delle parti centrali della raccolta, popolata da figure umane che a tratti sono specifiche (“La mia donna”, “Le mie figliole”), altre quasi tipizzate (come il tappezziere e il carbonaio de “La mia strada”), e da rammarichi/sfoghi come quelli contenuti in “Anch’io sono borghese”, con cui si apre la sezione Confidenze.
E poi c’è quel mirabile scambio di sguardi con l’Altro (ne “Il fratello del tram”), nella persona di un ragazzino qualunque, in cui il poeta si specchia come se fosse lui, quasi che la sua ignara giovinezza rappresentasse, in un altro piano esistenziale, una seconda possibilità di vita.
E infine c’è un ultimo livello: quello più filosofico e quasi mistico, che traspare dalle pagine dedicate all’Arno, che diventa eraclitea metafora del continuo divenire delle cose e della mutevolezza del volto di Firenze, quella stessa città “bottegaia” deprecata dal futurista Papini, che qui la chiama “maledetta città carceriera”, ma che nel flusso liberatorio del suo corso d’acqua pare trovare una sorta di nemesi naturale.
E soprattutto, e sotteso a tutto, c’è quel “canto dentro di me”, ineffabile e imprescindibile, cuore pulsante e nocciolo vitale della tensione poetica, ma anche suo limite matematico e forse radice divina.
Intervista a Raoul Bruni
GA: La poesia come intima ispirazione e fonte di un canto ineffabile è al centro di questa raccolta di prose liriche di Giovanni Papini. Un crocevia di istanze romantiche, ermetiche e simboliste?
RB: Il tema dell’ineffabilità è centrale fin dalle origini della poesia italiana (basti pensare al Dante paradisiaco o a Jacopone da Todi), ma Papini sviluppa questo motivo in una chiave certamente nuova rispetto ai canoni poetici italiani d’inizio Novecento: per cercare di dire l’indicibile, propone soluzioni stilistiche e lessicali inconsuete (penso, oltre che a Cento pagine di poesia, alla raccolta poetica Opera prima, del 1917, che è stata ristampata, per mia cura, presso l’editore San Marco dei Giustiniani nel 2008), in linea con le innovazioni introdotte dai poeti simbolisti francesi. Inoltre, come è stato rilevato dalla critica, a rileggerle oggi, le liriche e le prose poetiche di Papini sembrano prefigurare aspetti stilistici tipici dell’ermetismo. Tant’è che lo stesso Papini affermò di essere stato «fra i primissimi in Italia a tentare quei modi e toni e procedimenti che oggi si chiamano ermetici e surrealisti».
GA: Leggendo questi testi papiniani, si rimane colpiti dalla loro semplicità, ma al tempo stesso da una filigrana di rimandi intuitivi, quasi che lui guardasse al mondo (come ad esempio fa col fiume Arno) come ad un reticolo di significati nascosti. Quale la radice di questa sua perfetta fusione di aderenza al reale e potenziale immaginativo?
RB: Non c’è dubbio che queste prose non sono riducibili ad un mero esercizio di stile. Papini prestò sempre grande attenzione ai risvolti più profondi, direi esoterici, della parola poetica. Credo che alla radice di questa prospettiva letteraria ci sia l’attenzione di Papini per la filosofia e per i filosofi (in Cento pagine di poesia, in particolare, decisivo è l’influsso di Nietzsche). Occorre infatti ricordare che il giovane Papini fu tra gli esponenti di maggior spicco del pragmatismo filosofico italiano, guadagnandosi l’attenzione e la stima, fra gli altri, di William James.
GA: Papini – lo stesso dell’invettiva futurista contro “Firenze passatista” – qui lascia trapelare il suo lato caustico e misantropo, là dove parla del suo bisogno di isolarsi nella natura, realizzando così un ritorno alla fonte: la campagna coi suoi silenzi, il suo cielo e le sue voci animali. Espressione, questa, di una vocazione ascetica o dell’animo bifronte (cittadino e rustico) dei Toscani?
RB: Papini ha sempre prestato molto attenzione al tema della toscanità, e della fiorentinità in specie, e certamente il suo carattere tutt’altro che accomodante è una piena espressione del genius loci. Tuttavia, la sua ricerca di solitudine ha anche motivazioni più profonde, di tipo filosofico: in vari brani delle Cento pagine, e in altri luoghi dell’opera di Papini (si pensi al sottovalutato Rapporto sugli uomini), emerge spesso un forte sentimento antiantropocentrico e antiumanistico. Per questo suo afflato antiumanistico Papini è avvicinabile ad alcuni dei pensatori più corruschi del Novecento: penso in particolare a E. M. Cioran.
GA: L’autore definisce la poesia “necessaria all’anima umana” e parla di un “canto dentro di me”. Quale il lascito di questa intuizione mistico-psicologica al mondo delle lettere di oggi?
RB: Papini aveva un’idea quasi sacrale della poesia, che considerava uno dei vertici assoluti dell’espressione letteraria e artistica. Prova ne è il fatto che nella sua opera proverbialmente smisurata figurano soltanto due raccolte di poesie in senso stretto (la già citata Opera prima e Pane e vino). Insomma: il poligrafo Papini fu assai parsimonioso quando si trattava di pubblicare poesie in versi o in prosa (anche le raccolte di prose poetiche papiniane sono soltanto due: Cento pagine di poesia e Giorni di festa). Ecco, proprio questa parsimonia dovrebbe essere un monito per i molti poeti della domenica dell’Italia di oggi, che continuano a pubblicare volumi di versi, immediatamente destinati al macero, spinti soltanto da velleità narcisistiche.
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